Intervista a Wolfgang Petersen
La storia infinita
Di Marco Spagnoli
E’ morto Wolfgang Petersen regista di film molto interessanti come Il mio Nemico e Nel centro del mirino, ma anche di blockbuster come La storia infinita, Air Force One, Virus Letale, La tempesta perfetta e del meno riuscito Troy. Petersen è, però, soprattutto il regista di uno dei più importanti film tedeschi ed europei della storia del cinema: U-Boot 96 dedicato alla drammatica storia di un sommergibile durante la Seconda Guerra Mondiale.
Noi lo abbiamo intervistato nel 2006 per il remake di Poseidon che con quella storia aveva un grande legame visivo.
E lo vogliamo ricordare attraverso le sue parole.
Come spiega la sua ‘fascinazione’ nei confronti dell’acqua?
E’ davvero strana: non so bene nemmeno io stesso, perché nutro questa fascinazione, ma ovviamente è qualcosa che avverto molto profondamente. Forse deriva dal fatto che sono cresciuto sulle rive del mare ad Amburgo in Germania e il potere dell’acqua è qualcosa che ho percepito sempre molto profondamente. La bellezza e la forza dell’acqua mi hanno sempre affascinato, mentre guardavo l’oceano da ragazzo. La forza immaginifica del suo potere è qualcosa che mi è rimasto addosso crescendo. Credo che la forza distruttiva dell’acqua sia così forte che se tu trovi la storia giusta devi provare a mostrarla. Io ho trovato tre storie con U-Boot 96, La tempesta perfetta e – adesso – Poseidon che mi hanno consentito di lavorare su questo aspetto di forza e potenza dell’acqua e credo di essere stato molto fortunato. Non so cosa farci, per me l’acqua è una strana ossessione.
Che rapporto c’è con il film originale?
E’ una pellicola che ho amato moltissimo e che ho visto al cinema trentaquattro anni fa quando è uscita nelle sale. Mi interessava la sua forza metaforica: riflettere su come puoi reagire quando – al mondo – ci sono tutti questi disastri. L’idea originale era quella di mostrare il mondo rovesciato: mi stimolava l’idea di adattare quel tipo di suggestione.L’unica giustificazione che potevo cercare nel fare questo remake era quella di rendere il film il più realistico possibile, perché oggi il pubblico sa bene – grazie a tv e giornali – quali siano le immagini dei disastri e quale sia la loro forza. Non volevo che questo film sembrasse un’invenzione hollywoodiana, ma un’esperienza che il pubblico non avrebbe dimenticato.
Parliamo un attimo della metafora…
Il nostro è un mondo difficile pieno di disastri e di terrore in cui la gente ha paura. I cineasti come me cercano sempre di dare vita a storie che riflettono sulla realtà che li circonda: a mio avviso c’è una maniera per trasformare un disaster movie del 1972 in qualcosa di adatto al 2006. Per farlo bisogna cercare un tono speciale in parte brutale e realistico. In questo film, ad esempio, ho voluto rendere i cadaveri molto visibili: una scelta in genere assente nel vocabolario dei disaster movies dove a parte due o tre corpi tutto è molto politicamente corretto. Noi volevamo mostrare al pubblico qual è l’aspetto di un disastro dall’inizio alla fine. In più i disastri colpiscono sempre le persone normali e per me la metafora più interessante era quella di mostrare la reazione della gente comune a qualcosa di inaspettato e repentino che trasforma la sua esistenza nel giro di pochi istanti. La metafora è che non ci sono più regole e che nulla conta più quando accadono i disastri. Sono interessato dalla realtà e dal come affrontarla.
Tra il 1972 e oggi, però, c’è stato anche un film come Titanic: è cambiato qualcosa?
Certamente. Quando si gira un film del genere non si può non pensare a Titanic. Ho amato molto il lavoro meraviglioso di James Cameron, ma Poseidon resta comunque qualcosa di molto diverso: se il film di Cameron era soprattutto una storia d’amore sullo sfondo di un contesto epico, il mio film è una pura storia corale di sopravvivenza molto diversa. In più oggi gli effetti visivi sono molto più avanzati di quelli usati dieci anni fa da James Cameron. Anche questo elemento per me ha contato molto: mi sono chiesto ‘come posso rendere tutto questo ancora più eccitante?’
In cosa è cambiata la tecnologia?
Basta pensare all’inizio del film: si tratta di una sequenza di due minuti e mezzo mai realizzata prima in cui la macchina da presa gira intorno alla nave e dove tutto – tranne Josh Lucas – è stato realizzato al computer. Ci sono voluti quattordici mesi di lavoro solo per la creazione di questa scena e diciannove giorni di rendering dell’immagine. Il risultato, però, è incredibile e va oltre qualsiasi altro film realizzato prima di oggi. Oggi gli effetti speciali rendono la nostra vita molto più semplice in modo da confondere sempre di più il confine tra realtà e finzione.
Nonostante la tecnologia, però, gli attori hanno un ruolo predominante nel suo cinema…
Questo perché ho sempre adorato gli attori: sin da quando ero in Germania ho sempre amato molto lavorare con i grandi interpreti che – soprattutto in quegli anni – popolavano il cinema tedesco. Vado sempre molto d’accordo con gli interpreti dei miei film, perché nutro un grande rispetto nei loro confronti.
Lei è uno dei registi europei che lavora stabilmente in America con una sensibilità hollywoodiana. Come mai?
Quando ero piccolo andavo sempre a vedere i film americani: in particolare adoravo i western e trascorrevo metà della mia vita al cinema. Sono cresciuto vedendo dei film americani meravigliosi: impazzivo per il cinema di John Ford e Howard Hawks grazie al grande livello di realismo. Dopo il mio lavoro in Germania è stato quasi naturale che io andassi a Hollywood a lavorare. Certo, il mio cinema è improntato a temi collegati all’immaginario culturale americano, ma – nella mia carriera – ho affrontato anche storie come quella di Troy più vicine alla sensibilità europea. In più non credo che il tema di Poseidon non sia tipicamente americano, ma riguardi una tematica universale: la sopravvivenza. Personalmente non cerco di imitare gli americani, ma – piuttosto – di dare vita ad uno stile personale e il più possibile originale.
Lei ama sempre sfidarsi, complicandosi la vita: perché?
E’ la stessa cosa che mi chiede sempre mia moglie. In realtà quello che mi interessa è condurre il pubblico verso mondi che non hanno mai visto prima. Entrare in un mondo sconosciuto è una grande avventura: per me è sempre stato così sin da quando ero bambino e andavo a vedere al cinema i film americani. Era come esplorare la vita in mondi che non conoscevo. Così oggi come regista cerco di fare lo stesso creando universi che abbiano una base reale per poi diventare delle grandi avventure. In altri miei film come La storia infinita era più facile che soprattutto i ragazzi potessero scomparire. Questo è per me il cinema: non importa si tratti di film di fantascienza oppure epici come Troy. L’essenziale è potere far fare un viaggio.
Creare questi mondi è sempre più difficile. Il pubblico è sempre più sofisticato e la ricerca visiva di noi registi è sempre più complessa. Dare vita a film che ti sorprendano non è mai stato così difficile. La mia sfida personale è – come cineasta – quella di accettare sfide apparentemente impossibili come Troy. Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta mi sono detto: “Ma chi può fare qualcosa del genere?” Poi, però, in me emerge l’ambizione di plasmare quel mondo e di portarlo sullo schermo.
Ho sempre amato i registi che affrontano nel loro cinema situazioni estreme come la guerra o i disastri naturali in cui le persone sono tirate fuori dalla loro vita normale e messe dinanzi ad eventi straordinari. Situazioni in cui l’apparenza che domina la nostra vita viene riportata all’essenzialità: dove non puoi mentire agli altri, né a te stesso. L’acqua è una delle forze più dirompenti della natura: è qualcosa di incontenibile e potente. Le storie che hanno a che fare con la forza dell’acqua sono per loro stessa natura estreme e meravigliose da raccontare. In Poseidon il muro di acqua che fa capovolgere la nave è un po’ come la mano di Dio che sconvolge il mondo. Tutte le persone ben vestite così vedono sconvolte la propria vita e si trovano tutte sullo stesso piano: quello che conta in questi casi è soltanto la possibilità di sopravvivere. Poseidon, per me, rappresenta la metafora del mondo di oggi: un pianeta sottosopra, sconvolto dal terrorismo e da disastri come lo Tsunami in cui la sopravvivenza del genere umano è diventata di primaria importanza.
Basta pensare all’11 settembre: le persone erano andate alle Torri Gemelle per lavorare e – ad un certo punto – tutto è stato stravolto da eventi imprevedibili. Una metafora importante da utilizzare, ma in un film che non sia un documentario…
Spesso nei suoi film come Il mio nemico o Troy abbiamo un conflitto tra i due protagonisti che poi diventa rispetto o amicizia addirittura…
Questo perché io sono molto romantico. Alla fine dei conti credo sempre che le persone siano meglio di quello che crediamo. L’antagonismo diventa qualcos’altro. Per me è il mio modo di offrire uno sguardo positivo sull’umanità: se le cose vanno malissimo credo che le persone siano in grado di tirare fuori il meglio di loro stesse, diventando perfino amiche tra loro. Anche in Poseidon sebbene Kurt Russell e Josh Lucas siano ostili all’inizio, verso la fine del film dimostrano di rispettarsi e di essere diventati quasi amici.
In U-Boot 96 il capitano del sottomarino dice al giornalista di non fotografare i marinai alla partenza, ma al ritorno. Quando il reporter gli chiede perché lui risponde: “Perché avranno la barba…”. Si può dire che – in nuce – questa frase contiene l’essenza del suo cinema?
Lei ha assolutamente ragione! E’ proprio così e sono molto contento di questa sua osservazione: il mio cinema è proprio questo. Un mio film è soprattutto un viaggio con una partenza e una fine. Si parte in uno stato di innocenza e – alla fine – tutto è cambiato per sempre con i protagonisti che sono stati trasformati dal loro viaggio interiore. Spero che anche il pubblico – in qualche maniera – si senta cambiato da questa esperienza cinematografica. Poseidon è la metafora di un viaggio nella follia: guardate come sono i protagonisti all’inizio e guardate come sono stati trasformati alla fine: in poco tempo sono stati cambiati da ciò che hanno vissuto in situazioni così estreme. Quello che accade in genere in vent’anni di vita queste persone lo hanno vissuto in due ore di film. Ma – alla fine – il loro viaggio interiore è qualcosa che li ha segnati per sempre.